domenica 13 febbraio 2011

SE NON ORA QUANDO !


COSTITUZIONE DELLA REPUBBLICA ITALIANA

PRINCIPI FONDAMENTALI

Art. 1.

L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.



Art. 2.

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.



Art. 3.

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.


Art. 4.

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.

Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un'attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.



Art. 5.

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.


Art. 6.

La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.

Art. 7.

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.



I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.



Art. 8.

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.

Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano.



I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.



Art. 9.

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.

Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.



Art. 10.

L'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l'estradizione dello straniero per reati politici.



Art. 11.

L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.



Art. 12

La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.


......
Art. 54.



Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi.
I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge.



giovedì 10 febbraio 2011

CHI SIAMO NOI PER GIUDICARLO

Porto all'attenzione questo articolo di Stefano Cappellini perchè,  tra le altre cose, ben chiarisce la posizione di chi "non ama dispensare giudizi morali e non andrà in piazza; non nutre riserve intellettuali sul sesso libero, compreso quello di Berlsuconi, e che però vorrebbe rimanere alla sostanza dei fatti che lo riguardano...

dal Riformista del 10 febbraio 2011

Chi siamo noi  per giudicarlo



di Stefano Cappellini

Silvio Berlusconi è innocente fino a prova contraria. Silvio Berlusconi ha diritto a non essere processato pubblicamente da tribunali della morale, siano essi mediatici o politici. Detto questo...



Silvio Berlusconi è innocente fino a prova contraria. Silvio Berlusconi ha diritto a non essere processato pubblicamente da tribunali della morale, siano essi mediatici o politici. Detto questo, tra una disputa e l’altra sull’azionismo, su Montesquieu e i poteri dello Stato, sui lasciti del femminismo, si può dire che Silvio Berlusconi avrebbe già dovuto da tempo dimettersi dalla presidenza del Consiglio? Un primo ministro non può telefonare in Questura e sollecitare trattamenti di favore a persone, incidentalmente minorenni, che hanno allietato le sue serate. Non può organizzare festini arruolando decine di escort perché espone al ricatto e al rischio se stesso e la carica che ricopre. Non può selezionare le candidature nelle liste del suo partito sulla base delle frequenze al bunga bunga. Si potrebbe continuare.

Davanti a questo catalogo, che sarebbe costato il pensionamento a qualunque altro capo di governo europeo, i difensori del Cavaliere hanno percorso tre strade. La prima specie di difensori, i negazionisti, hanno appunto negato: tutte invenzioni. Le cene? Innocue ed eleganti serate. Le buste alle ragazze? Beneficenza di un uomo dal cuore d’oro. Il bunga bunga? Una vecchia barzelletta di Bisio, cosa avevate capito? Quando è apparso chiaro pure ai più ottusi difensori che questa linea non reggeva nemmeno sui titoli del Tg4, anzi di questi tempi soprattutto sui titoli del Tg4, è scesa in campo una più attrezzata categoria: gli storicisti. Loro non negano nulla, o quasi.

Con le orge con le prostitute (Silvio, dicono, ha gioia di vivere), non l’inopportunità dei suoi comportamenti rispetto alla carica («Siamo in mutande», ha scritto Giuliano Ferrara, ideologo principe della categoria), non la necessità di porgere all’opinione pubblica versioni dei fatti meno inverosimili e magari anche scuse per quanto emerso. Per gli storicisti, però, tutto va inquadrato in un piano di ventennale guerra della magistratura a Berlusconi, il quale avrà pure esagerato, ma è finito vittima dell’ennesima arbitraria e faziosa vendetta dei pm. Insomma, guai a darla vinta a Ilda Boccassini.

Ma nemmeno questa trincea, un po’ più solida della precedente, ha retto del tutto. Perché tu puoi pure sostenere (e c’è del vero) che in Italia la magistratura ha sconfinato spesso e volentieri, puoi provare a dire che la Procura di Milano, quando c’è di mezzo Berlusconi, si accanisce più del dovuto, ma poi devi fare i conti col fatto che i primi a non essere tanto convinti che gli ultimi reati contestati siano invenzioni paiono proprio i legali del premier. Se non ha mai «avuto colloqui diretti con Ruby» (così Berlusconi pochi giorni fa), se la ragazza ha solo partecipato a innocenti tavolate, perché ora il premier e i suoi legali sono furiosamente impegnati a dimostrare, a dispetto dell’evidenza, che Ruby era maggiorenne? E ancora: dicono i legali che Silvio Berlusconi era seriamente convinto che la ragazza fosse la nipote di Mubarak. E il dramma è che il Parlamento italiano ha votato la scorsa settimana un documento in cui questa tesi è messa nero su bianco. Evidentemente, quella telefonata alla Questura di Milano non era così ordinaria e giustificabile se oggi Ghedini e soci provano a fare bere al paese una verità come questa, che espone il Capo a una poco invidiabile alternativa di giudizi: o mente o è un minus habens, uno sprovveduto cui si può far credere qualunque cosa. Propendiamo per la prima ipotesi.

Ma la trincea degli storicisti anti-pm non ha retto perché questa vicenda ha smosso qualcosa di profondo nell’immaginario del paese, ed è difficile convincere e trascinare le folle spiegando che tutto l’ambaradan che tiene ostaggio il paese si riduce a un match Boccassini vs. Berlusconi. Infatti, da qualche giorno, agli storicisti si sono affiancati gli amoralisti. In molti casi si tratta delle medesime persone che si sono già prodotte nei filoni precedenti. Gli amoralisti sono quelli che, più o meno biblicamente, la buttano sul “chi siete voi giudicare?”. L’obiettivo di questa ultima specie di difensori a oltranza di Berlusconi è dimostrare che la lettura del Rubygate è irrimediabilmente guastata dalle turbe, i ritardi, i complessi, le ipocrisie della sinistra. Ci sono cattolici come Maurizio Lupi o neo-confessionali come Eugenia Roccella i quali spiegano che non ha titolo per biasimare Berlusconi chi ha aperto la via al libertinismo sessuale e che Berlusconi è, tutt’al più, il prodotto più puro del sessantottismo, della «morale liberata». Bene, ci sarebbe da dir loro a prenderli sul serio, visto che chiedete ai sessantottini di prendersi le proprie colpe, chiedete al loro “figlio” di farsi da parte: se siete convinti che il Sessantotto sia la rovina generale, combattetelo ora che ha occupato Palazzo Chigi, no? Ovviamente no.

Ma non è finita. Perché poi arrivano le femministe, o ex femministe, e gli ex comunisti in affari, che ti spiegano che se il 13 febbraio le donne scendono in piazza calpestano proprio gli ideali di un tempo, di quando eravamo libertari e garantisti, spregiudicati e intellettualmente aperti. Anche per loro, in fondo, Berlusconi è figlio del Sessantotto, ma in questo caso la cosa è ben vista: il Cavaliere a Palazzo Chigi è l’immaginazione al potere (e vagli a dare torto).

Questo incrociare di lame intellettuali e accademiche – affascinante, per carità – ha prodotto l’effetto di una cortina fumogena. Alla sbarra del dibattito mediatico non c’è più Berlusconi ma il “compagno” sciovinista, la femmina benpensante, l’azionista parruccone. E a noi, che in questa storia non abbiamo mai voluto dispensare giudizi morali, che non andremo in piazza, che non nutriamo riserve intellettuali sul sesso libero, compreso quello di Berlsuconi, e che però vorremmo rimanere alla sostanza dei fatti che lo riguardano, viene comunque da chiederci se debba poi sentirsi così reazionario quel maschio o quella femmina che mal pensa di una ragazza che si concede al ricco e potente per ricavarne un vantaggio sociale oltre che materiale. O se debbano sentirsi codine quelle donne che manifesteranno un po’ scocciate che la parlamentare, la consigliera regionale o l’eurodeputata siano tali perché, parafrasando una nota battuta, «sotto la quarta misura non è vera politica». Ma non vogliamo addentrarci su questa strada. Significherebbe dar man forte ai nuovi difensori del Cavaliere.

Solo un’ultima notazione. La sinistra ha sì una grossa colpa in questa vicenda. Non si è fatta trovare pronta all’appuntamento e continua non esserlo. Se oggi i difensori del Cavaliere possono attaccarsi alle sgrammaticature di un Saviano o ai moralismi di qualche lady sofisticata, è perché, pur con Berlusconi ridotto com’è, dall’altra parte non c’è un’alternativa credibile, che avrebbe potuto rimuoverlo con un soffio: non c’è un progetto politico definito né una coalizione né un candidato premier. E almeno in questo caso, per fortuna, nessuno si è ancora azzardato a darne la colpa al Sessantotto.

martedì 8 febbraio 2011

Il fantasma azionista

PER APPROFONDIRE:


da La Repubblica del 8/2/2010

Il fantasma azionista
Gli attacchi di Ferrara a Zagrebelsky. L'ossessione della nuova destra nei confronti dell'"azionismo torinese", quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una malattia ideologicadi

di EZIO MAURO





L'UNICA cosa su cui vale la pena ragionare, nell'attacco furibondo di Giuliano Ferrara a Gustavo Zagrebelsky, dopo la manifestazione di "Libertà e Giustizia" 1 di sabato scorso a Milano, non sono gli insulti - di tipo addirittura fisico, antropologico - e nemmeno la rabbia evidente per il successo di quell'appuntamento pubblico che chiedeva le dimissioni di Berlusconi: piuttosto, è l'ossessione permanente ed ormai eterna della nuova destra nei confronti della cultura azionista, anzi dell'"azionismo torinese", come si dice da anni con sospetto e con dispetto, quasi la torinesità fosse un'aggravante politica misteriosa, una tara culturale e una malattia ideologica invece di essere semplicemente e per chi lo comprende, come ripeteva Franco Antonicelli, una "condizione condizionante".



Eppure la storia breve del Partito d'Azione è una storia di fallimenti, che nel sistema politico ha lasciato una traccia ormai indistinguibile. Gli ultimi eredi di quell'avventura, nata prima nella Resistenza e proseguita poi più nelle università e nelle professioni che nella politica, sono ormai molto vecchi, o se ne sono andati, appartati com'erano vissuti, in case piene di libri più che di potere. Ma l'idea dev'essere davvero formidabile se ha attraversato sessant'anni di storia repubblicana diventando il bersaglio dell'intolleranza di tutte le destre che il Paese ha conosciuto, vecchie e nuove, mascherate e trionfanti, intellettuali e padronali: fino ad oggi, quando si conferma come il fantasma d'elezione, fisso e ossessivo, persino di questa variante tardo-berlusconiana normalmente occupata in faccende ben più impegnative, personali ed urgenti.


È un'ossessione che ritorna, periodicamente: la stessa destra si era già segnalata nel rifiutare pochi anni fa il sigillo civico di Torino ad Alessandro Galante Garrone, uno dei pochi che non aveva mai giurato fedeltà al fascismo, come se questa fosse una colpa nell'Italia berlusconiana. Oppure nel trasformare la lettera di supplica al Duce firmata da Norberto Bobbio in gioventù in un banchetto politico, moralista, soprattutto ideologico: tentando, dopo che il filosofo rifece pubblicamente i conti della sua esistenza (proprio sul "Foglio" di Ferrara) di rovesciarne la figura nel suo contrario, annullando la testimonianza di una vita per quell'errore iniziale, in modo da poter affermare una visione del fascismo come orizzonte condiviso o almeno accettato da tutti, salvo pochi fanatici, una sorta di natura debole italiana, nulla più.


Oggi, Zagrebelsky, e si capisce benissimo perché. Quando la cultura si avvicina alla politica e la arricchisce di valori e di ideali, cerca il nesso tra politica e morale, si rivolge allo spirito pubblico, invita alla prevalenza dell'interesse comune sul particolare, scatta il vero pericolo, in un'Italia che si sta adattando al peggio per disinformazione, per convenienza o per pavidità. Quando ritorna la cifra intellettuale dell'azionismo, che è il tono della democrazia classica, e si avverte che quell'impronta culturale forte, quasi materiale, non si è dissolta con la piccola e velleitaria organizzazione nel '47, ecco l'allarme ideologico. Parte l'invettiva contro il "gramsciazionismo" torinese, considerato due volte colpevole perché troppo severo a destra, nel suo antifascismo intransigente, troppo debole a sinistra, nei suoi rapporti con il comunismo.
Anche questa destra è in qualche modo una rivelazione degli italiani agli italiani, con un patto sociale ridotto ai minimi termini e la tolleranza che diventa connivenza, purché la leadership carismatica possa contare su una vibrazione di consenso, assumendo in sé tutto il discorso pubblico, mentre il cittadino è ridotto a spettatore delegante, ma liberato dall'impaccio di regole e leggi. Un'Italia dove il peggio non è poi tanto male, dove si relativizza il fascismo, un'Italia in cui tutti sono uguali nei vizi e devono tacere perché hanno comunque qualcosa da nascondere, mentre le virtù civiche sono fuori corso e insospettiscono perché lo Stato è un estraneo se non un nemico da cui guardarsi, le istituzioni si possono abitare da alieni, guidare con il sentimento dell'abusivo. Un Paese abituato e anche divertito ad ascoltare l'elogio del malandrino, in cui l'avversario viene schernito, il suo tono di voce deriso, il suo accento additato come una macchia, il suo aspetto fisico denunciato come una colpa, o una vergogna. Mentre gli ideali sono abitualmente messi alla berlina, e la delegittimazione diventa una cifra della politica attraverso un giornalismo compiacente di partito: una delegittimazione insieme politica, morale, estetica, camuffata da goliardia quando serve, da avvertimento - nel vero senso della parola - quando è il caso. Fino al punto, come diceva già una volta Moravia, di "vantare come qualità i difetti e le manchevolezze della nazione".


Bobbio non si spiegava perché nei suoi ultimi anni avesse ricevuto più attacchi che in tutta la sua vita. Ma non era cambiato lui, era cambiata la destra. E per questa nuova destra che cresceva tra reazione di classe e crisi morale, quell'azionismo residuale e tuttavia irriducibile nella sua testimonianza nuda e antica, disarmata, rappresentava il vero ultimo ostacolo per realizzare il cambio di egemonia culturale di quest'epoca, attraverso la destrutturazione del sistema di valori civili su cui si è retta la repubblica per sessant'anni. Un sistema coerente con il patto di cultura politica che sta alla base della Costituzione, con le istituzioni che ne discendono, con quel poco di antifascismo italiano organizzato nella Resistenza che ne rappresenta la fonte di legittimazione, e rende la nostra libertà democratica almeno in parte riconquistata, e non octroyée, concessa dagli alleati.


Un obiettivo tutto politico, anzi ideologico, che doveva per forza attaccare tre punti fermi della cultura repubblicana: l'antifascismo (Vittorio Foa diceva che la Resistenza era la vera "matrice" della repubblica), il Risorgimento, nella lettura di Piero Gobetti, il "civismo", come lo chiamava Ferruccio Parri, cioè un impegno morale e politico a vincere lo scetticismo e il cinismo nazionale. È chiaro che l'azionismo era il crocevia teorico di questi tre aspetti, soprattutto la variante torinese così intrisa di gobettismo, e che tradisce la presunta neutralità liberale, anzi compie il sacrilegio di coniugare il metodo e i valori liberali con la sinistra italiana, rifiutando l'anticomunismo.


Proprio per questo, gli azionisti sono pericolosi due volte. Perché non portano in sé il peccato originale del comunismo, che contrassegna gran parte della sinistra italiana, e perché non scelgono l'anticomunismo, come dovrebbe fare ogni buon liberale. Anzi, questo liberalismo di sinistra rifiuta l'equidistanza tra fascismo e comunismo, che porta il partito del Premier e i suoi giornali addirittura a proporre la cancellazione della festa della Liberazione, come se il 25 aprile non fosse la data che celebra un accadimento nazionale concreto e storico, la fine della dittatura, ma solo una sovrastruttura simbolica a fini ideologici. Così, Bobbio denuncia come la nuova equidistanza tra antifascismo e anticomunismo finisca spesso ormai per portare ad un'altra equidistanza, "abominevole": quella tra fascismo e antifascismo.



Ce n'è abbastanza per capire. Debole e lontana, la cultura azionista è ancora il nemico ideologico, se propone un'Italia di minoranza intransigente, laica, insofferente al clericalismo cattolico e comunista, praticante della religione civile che predica una "democrazia di alto stile". Si capisce che nell'Italia di oggi, dove prevale una politica che quando trova "un Paese gobbo - come diceva Giolitti - gli confeziona un abito da gobbo", quella cultura sia considerata "miserabile". Guglielmo Giannini, d'altra parte, sull'"Uomo Qualunque" derideva gli azionisti come "visi pallidi", Togliatti chiamava Parri "quel fesso". Ottima compagnia, dunque. Soltanto, converrebbe lasciar perdere Gobetti. Perché a rileggerlo, si scoprirebbe che sembra parlare di oggi quando scrive degli "intona-rumori, della grancassa, di un codazzo di adulatori pacchiani e di servi zelanti che facciano da coro", che diano "garanzia di continuità nella mistificazione", "armati gregari" che sostituiscono "la fede assente", perché "corte e pretoriani furono sempre consolatori e custodi dei regimi improvvisati con arte e difesi contro i pretendenti"