venerdì 18 gennaio 2008

REAPARECIDAS

da "Nigrizia"

I colori di Eva / Gennaio 2007

Reaparecidas

di Igiaba Scego

È un augurio per tutte le donne. Perché trovino la forza di ridare un senso a questa giostra impazzita che è il nostro mondo.
Adriana, Cristina, Elisa, Liliana, Miriam, Munù. Non sto facendo l’appello. Non sono a scuola, né in caserma. Non sono da nessuna parte in questo momento. Sono sospesa tra la tastiera di questo portatile scassato e un caffè lungo “americano”, che vorrebbe essere sorseggiato, apprezzato. Povero caffè! Si sta raffreddando... Va così quando scrivo: i caffè si raffreddano, la mente ribolle, le dita picchiettano su tasti malconci e i polsi (un po’ usurati) sognano la seduta del lunedì di Hata Yoga.

Queste cinque donne sono amiche mie. Carissime. Le ho incontrate un paio di mesi fa quasi per caso e da allora non me ne sono mai separata. Il paradosso è che non le conosco nemmeno. Ho visto una loro foto, certo, ma non ho mai stretto le loro mani calde o baciato le loro guance morbide. Però le ho abbracciate in sogno. Ora so a che ritmo batte il loro cuore. Ci separa un oceano. Una generazione. Dei miti musicali. Ma le sento vicine, come se fossero una particella della mia pupilla oblunga. Vedo con i loro occhi, ora.

Adriana, Cristina, Elisa, Liliana, Miriam, Munù, le ho trovate nelle pagine di un libro che, nel titolo originale, suonava come una ballata di Joan Baez: Ese Infierno. In Italia è stato pubblicato con il titolo Le Reaparecide (Stampa alternativa). Sono loro, queste cinque donne, a essere riapparse, reaparecidas, dopo essere state desaparecidas. Torturate dalla giunta militare argentina che – fine anni ’70-inizio anni ’80 – ha sequestrato, seviziato, assassinato la meglio gioventù del paese. Erano giovani, con idee e sogni. In cambio hanno ricevuto percosse, sputi in faccia e la famigerata picana, shock elettrici per tutto il corpo (capezzoli, genitali, braccia, gambe, collo). La gente a Buenos Aires e dintorni faceva finta di non sapere. I media parlavano dei Mondiali di calcio (1978). Si fingeva normalità. Si beveva il mate e il marcio sembrava non interessare a nessuno.

Queste cinque donne sono state recluse nell’Esma, la famigerata scuola di meccanica, e sono sopravvissute. Hanno fatto fatica a raccontare la loro storia. Ma l’hanno fatto. Per sé stesse, per noi. Per gridare il loro nunca más (“mai più!”). C’è dolore. Molto. Ma c’è anche ironia. C’è solidarietà.

La lettura m’ha fatto pensare a noi donne. A tutte le donne. Quelle che stanno male e quelle che stanno apparentemente bene. Dico apparentemente, perché non sono convinta che sia un buon momento per le figlie di Eva (Howa, in somalo). Basta sfogliare i giornali. Una nonna palestinese, con 41 nipoti, si fa saltare in aria. Perché così disperata? Invece di fare la calza, si riempie di esplosivo. Perché?

L’Istat ci dice che in Italia dieci milioni di donne subiscono violenze sessuali di vario tipo. In parlamento non siamo rappresentate un granché. Fatichiamo ad affermarci sul lavoro. La maternità è vista come una malattia e non come il miracolo che effettivamente è. Non è un bel momento, sorelle. Non è un bel momento, fratelli. Infatti, se la donna sta male, anche l’uomo sta male. Mi sembra di stare sopra una giostra impazzita e vorrei scendere. Ma forse la devo riparare, la dobbiamo riparare insieme questa giostra, che è il nostro mondo.
Io sono una afro-romana, una somala italiana, una che sta a metà esatta delle cose, e di riparazioni ne so qualcosa. Chi è somalo non può ignorare le tecniche di restauro. È una vita che andiamo avanti a riparare. Si è cercato di riparare ai danni del colonialismo (italiano a sud, inglese a nord) con un vagito di democrazia. È durata poco. Il 1° luglio 1960 si festeggiava con fuochi d’artificio l’indipendenza sognata, ma, già nove anni dopo, Siad Barre – o “Boccagrande”, come lo chiamavamo noi – ci imbrogliò con la promessa di un comunismo fittizio. Alcuni ci hanno creduto. In testa c’era Che Guevara. Ma la realtà era fatta dai denti aguzzi e divoratori di Siad.

Poi, per ragioni di opportunismo, dai sovietici il “Boccagrande” (con una bocca che diventava sempre più grande di anno in anno) passò alla corte di Washington. Era la guerra fredda. Ci si doveva schierare. I sovietici gli avevano preferito Menghistu e lui vide nell’Occidente un’opportunità di arricchirsi. Ne sa qualcosa anche l’Italia. Erano gli anni di Bettino Craxi, del Fai, creato ad arte dai socialisti, che stava per “Fondo aiuti italiani”, ma avrebbe potuto anche stare per “Fregare aiuti italiani”.
Dopo Siad, la guerra civile: violenta, assurda, feroce.

E oggi? Oggi c’è una guerra regionale alle porte: si fronteggiano i signori della guerra, rifugiati a Baidoa, e le corti islamiche, che hanno occupato gran parte del paese. Ma dietro ci stanno tutti. C’è l’Etiopia di Melis Zenawi. C’è l’Eritrea. Ma anche Egitto, Yemen, Gibouti, Uganda, l’Occidente. Una guerra mondiale africana. Non l’unica. Purtroppo.
Quindi, come dicevo, i somali sono esperti del restauro. Devono riparare i danni altrui per poter sopravvivere. Le donne, soprattutto. Hanno perso i colori le donne somale. Sono opache, oggi. Quando ero piccola, ricordo le donne somale con i loro colori sgargianti: fucsia, rosso fuoco, verde acido, arancione, soprattutto celeste, il colore della bandiera adorata. Oggi, vedendo le donne somale della diaspora per strada o dando un’occhiata alle immagini che Al Jazeera trasmette da Mogadiscio, noto solo colori morti: verde escremento, grigio topo, marrone stinto.

Fa paura questa assenza di colore. Quando c’è la guerra, il colore scompare. Desaparecido. Fa paura. Vorrei vedere colori riapparire, le donne riapparire…. Reaparecidas, come Adriana, Cristina, Elisa, Liliana, Miriam, Munù, appunto.

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